Cronaca di un cocerto elettrizzante [RECENSIONE]


Recensione a cura di The Music Potrait. 
Il copione vincente del concerto perfetto è quello che, guarda caso, seguono alla lettera i The Script. Apertura ad effetto, risate ed emozioni durante e gran finale col botto, il tutto condito da tanto cuore e genuinità. Dal loro primo (ed omonimo) album mi hanno letteralmente conquistata, riuscendo ad annoverarsi tra uno dei miei gruppi pop/rock preferiti di sempre. È come se il pop dei Savage Garden incontrasse influenze rap e si mescolasse nel frattempo con il rock dei Kings of Leon. La miscela è praticamente perfetta ed originale al tempo stesso.
Perché piacciono? Oltre all’indiscutibile fascino di Danny O’Donoghue, frontman del gruppo (insomma, anche l’occhio vuole la sua parte), dalla loro hanno la freschezza e la genuinità tipica irlandese, una musicalità semplice ma accattivante e lyrics ben confezionate e soprattutto non banali – come purtroppo succede a buona parte dei loro colleghi.
Ma soprattutto.. perché riescono a rendere sold out l’unica data italiana in così poco tempo? Ero stata al loro primo concerto qui a Milano un paio di anni fa e lo ammetto: di gente ce n’era abbastanza, ma non erano stati così memorabili da guadagnarsi il podio di miglior live band in circolazione. Danny non aveva dato il massimo in quanto a tecnica vocale e, più generalmente, non erano riusciti ad impressionarmi come durante l’ascolto dei primi 2 CD.


Ma che cambiamento ieri sera! La location era la medesima (Alcatraz di Via Valtellina), la gente si era magicamente duplicata. “Mi ricordo ancora di quando ci siamo esibiti qui, qualche tempo fa. Quanti di voi erano presenti? Beh, data la quantità di gente di stasera devo ammettere che siete riusciti a convertire un sacco di amici!” ironizza Danny. E loro? Veri e propri animali da palcoscenico. Danny ha utilizzato al meglio la sua estensione vocale saltando da una parte all’altra del palco. Glen e soprattutto Mark non sono stati da meno, intrattenendo il pubblico in visibilio, facendoci ridere ed emozionare.
Dopo l’apertura della band irlandese The Original Rude Boys (big up per la versione con ukulele di Niggas in Paris), è con Good Ol’ Days – canzone apripista del loro ultimo lavoro #3, che i The Script fanno la loro apparizione sul palco e danno inizio alle danze. Seguono a ruota due capisaldi: We Cry e Breakeven, la canzone del primo album che maggiormente rispecchia la (a quanto pare) burrascosa vita sentimentale di Danny. Si passa a Science & Faith, canzone omonima del secondo album, dove vengono analizzate le differenze tra ragione e sentimento, tra testa e cuore. Dolcemente fa capolino una delle canzoni più belle di sempre a livello di testo: The Man Who Can’t Be Moved che tutto l’Alcatraz canta a memoria dando vita ad uno splendido duetto improvvisato. Invito, chi non ne avesse ancora avuto modo di farlo, ad ascoltare attentamente le parole o a leggere le lyrics per rendersi conto della magia di questa canzone. Le emozioni continuano con If You Could See Me Now, canzone dell’ultimo album dedicata al padre di Danny e ai genitori di Mark, scomparsi quando aveva 12 anni e degnamente ricordati con questo brano. “I’m tryna make you proud / Do everything you did / I hope you’re up there with God / Saying: that’s my kid”. Emozioni davvero indelebili, attimi davvero toccanti ma soprattutto veri e sentiti. È per questo che la forza dei The Script arriva forte e chiara: la loro emozione è pura e il pubblico lo sente. “Ricordate che voi vedete noi su un palco ma noi da qui vediamo voi e vi assicuro che siete meravigliosi” ci ricorda Mark. Al cambio di prospettiva nessuno ci pensa mai, ma le emozioni dell’artista e del pubblico sono assolutamente bidirezionali. È questa la vera magia della musica.
Si torna ai “vecchi” tempi con Before The Worst, una delle canzoni emotivamente più vicine a me per poi passare a If You Ever Come Back, brano tratto dal secondo album. Con Nothing, che parla di quando siamo ubriachi e delle conseguenti tragicomiche conversazioni telefoniche con relativo/a ex, arriva il siparietto comico che vede Mark e Danny fare a gara per scolarsi una birra nel minor tempo possibile – con relativo ruttino finale e chiamata in diretta all’ex di una ragazza presente nel pubblico da parte di Danny. Dalla giocosità di Nothing si passa al momento più introspettivo della serata (nonché alla mia canzone preferita per eccellenza): I’m Yours, una ballata solo chitarra e voce scritta dal frontman del gruppo alle 3 di notte su una barca dopo una bottiglia di vino. Bella, pura, una canzone che mette a nudo la propria anima e la consegna incondizionatamente nelle mani del proprio partner. Si rimane in tema amoroso con Six Degrees of Separation, anche questa assolutamente eccellente a livello di testo. Anziché interpretare i sei gradi di separazione come si fa normalmente, i The Script li associano all’allontanamento graduale di una coppia ormai finita. “First, you think the worst is a broken heart / What’s gonna kill you is the second part / And the third is when your world splits down the middle / And fourth, you’re gonna think that you fixed yourself  / Fifth, you see them out with someone else / And the sixth is when you admit that you may have fucked up a little.
È You Won’t Feel a Thing a chiudere il cerchio, in vista del finale. Finale che arriva con For The First Time, singolo vincente del secondo album, e ovviamente l’acclamata Hall Of Fame che ha sicuramente contribuito, con i suoi passaggi in radio e il featuring con will.i.am, ad aumentare la loro fama in Italia e nel mondo.
Un concerto senza timidi ed inutili convenevoli, quasi fosse una serata tra amici di vecchia data. Un concerto affiatato e di vero contatto, con Danny che più volte scende tra le prime file del pubblico e, a luci spente, si fa trovare su una delle balconate dell’Alcatraz, tra lo stupore e la sorpresa dei fan. Il calore del pubblico italiano li ha letteralmente travolti – più e più volte ci hanno ringraziati confessandoci quanto fosse meraviglioso sentirci cantare a memoria le loro canzoni con la consapevolezza che l’inglese non fosse la nostra lingua madre.
È così la canzone vincente, quella che parte dalle tue esperienze personali e, per qualche strano e misterioso motivo, arriva a risuonare e ad emozionare anche chi la ascolta. Ed è così anche l’artista perfetto: quello che parte alla grande con un album che vende milioni di dischi, quello che può deludere leggermente le aspettative al primo live dove deve ancora farsi le ossa, quello che poi torna più forte di prima e lascia tutti a bocca aperta, in un vero rollercoaster che si conclude con adrenalina in corpo e sorriso sul volto e la consapevolezza di aver assistito ad un’esperienza così elettrizzante da non avere precedenti.
SCALETTA – Milano (29 gennaio 2013):
Good Ol’ Days
We Cry
Breakeven
Science & Faith
The Man Who Can’t Be Moved
If You Could See Me Now
Before The Worst
If You Ever Come Back
Nothing
I’m Yours
Six Degrees of Separation
You Won’t Feel a Thing
For the First Time
Hall of Fame



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